Leggiamo ed ascoltiamo la preghierina del 2 gennaio 2025
Dare voce al futuro
commento al Vangelo di oggi di Gv 1,19-28, a cura di Flavio Emanuele Bottaro SJ
Essere se stessi in un mondo che costantemente cerca di farti diventare qualcos’altro è la più grande conquista.
Entro nel testo (Gv 1,19-28)
Questa è la testimonianza di Giovanni, quando i Giudei gli inviarono da Gerusalemme sacerdoti e levìti a interrogarlo: «Tu, chi sei?». Egli confessò e non negò. Confessò: «Io non sono il Cristo». Allora gli chiesero: «Chi sei, dunque? Sei tu Elìa?». «Non lo sono», disse. «Sei tu il profeta?». «No», rispose. Gli dissero allora: «Chi sei? Perché possiamo dare una risposta a coloro che ci hanno mandato. Che cosa dici di te stesso?». Rispose: «Io sono voce di uno che grida nel deserto: Rendete diritta la via del Signore, come disse il profeta Isaìa». Quelli che erano stati inviati venivano dai farisei. Essi lo interrogarono e gli dissero: «Perché dunque tu battezzi, se non sei il Cristo, né Elìa, né il profeta?». Giovanni rispose loro: «Io battezzo nell’acqua. In mezzo a voi sta uno che voi non conoscete, colui che viene dopo di me: a lui io non sono degno di slegare il laccio del sandalo». Questo avvenne in Betània, al di là del Giordano, dove Giovanni stava battezzando.
Mi lascio ispirare
La domanda “Chi sei tu?” sembra banale, ma nasconde molti livelli di complessità. Rispondere in modo diretto, significa confrontarsi con le aspettative e i presupposti di chi interroga. Giovanni Battista evita di cadere nella trappola delle etichette che gli interlocutori vogliono attribuirgli. Le sue risposte negative (“Io non sono il Cristo, né Elia, né un profeta”) smascherano i loro schemi preconfezionati e costringono i suoi interlocutori a riformulare la domanda in termini di autoriflessione: “Che cosa dici di te stesso?”. Questa dinamica ci invita a riflettere sulla natura fluida dell’identità. Giovanni ci mostra che la nostra identità non si definisce nei termini di aspettative altrui, ma attraverso la consapevolezza di ciò che si è chiamati a essere.
Giovanni non agisce in modo autoreferenziale, ma si definisce come “voce di uno che grida nel deserto”. Presta la sua voce a un’attesa collettiva, verbalizzando un bisogno che il popolo stesso non sa ancora esprimere pienamente. Questa postura le rende un canale di un sapere più grande. Giovanni è un mediatore che coglie il “qui e ora” e lo orienta verso un futuro imminente. La sua missione non è offrire risposte definitive, ma preparare un terreno fertile per un cambiamento. Egli sente che c’è una novità che sta arrivando e che richiede una preparazione interiore e collettiva.
La lucidità di Giovanni risiede nella sua capacità di leggere il presente come un momento di pienezza che contiene in sé il futuro. Non è tanto il riconoscimento del Messia come persona fisica, quanto la consapevolezza che i tempi sono maturi per un cambiamento. Questo movimento ci ricorda che ogni transizione richiede preparazione: nulla avviene senza un lavoro interiore di disponibilità e accoglienza. Giovanni diventa simbolo di quelle dinamiche interiori che, anche nella nostra vita, prefigurano un cambio di prospettiva. Quando percepiamo che qualcosa sta cambiando, spesso non abbiamo ancora le parole o gli strumenti per definirlo, ma possiamo iniziare a prepararci per accoglierlo.
fonte © GET UP AND WALK
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