Leggi e ascolta La lepre

La lepre
La lepre

Leggiamo insieme

Il sentiero che tagliava il bosco, quasi orizzontalmente, era sconnesso.

Erano anni che nessuno lo curava. Era un bosco privato e il padrone era troppo anziano per occuparsene, ma non abbastanza malandato da girarci, il mattino presto, trovare la capanna di rami secchi che Giacomo e i suoi amici, i ragazzini del villaggio, avevano costruito il giorno prima, e distruggerla. Giosuè, si chiamava il vecchio e odiava i bambini, pur avendo avuto figli e nipoti. Forse odiava tutti.

Giacomo poteva percorrere quel sentiero e il resto del bosco a occhi chiusi; c’era cresciuto, anche se solo in estate, fra i pini, gli abeti, i larici, i rovi, le piantine di mirtillo e i cespugli di lampone di quel bosco. Sapeva di che pietre fidarsi ed evitava quelle instabili o coperte di muschio scivoloso.

Farsi male nel bosco era due volte pericoloso: potevano passare ore prima che qualcuno lo trovasse, magari con una gamba rotta, e in più sapeva che, tornato a casa, lo aspettava una punizione che andava da quattro schiaffi ben dati sul sedere, la meno grave, a due cinghiate sulle cosce che si facevano ricordare per giorni.


Il bosco era la riserva di caccia di Giacomo: con arco e frecce, rigorosamente auto costruite e altrettanto rigorosamente vietatigli da suo padre, batteva tutti gli anfratti, le radure, tutti i buchi del terreno, cacciando qualsiasi animale. Contrariamente alle più logiche regole della caccia Giacomo si muoveva nel bosco come si muoverebbe un elefante che ha fiutato l’acqua: rami spezzati, da sopravento, fischiettando e persino parlando fra sé a voce alta.

Succede spesso che un bambino, quando gioca da solo, inventi un compagno d’avventura e gli parli. Esiste. In quei momenti l’amico, l’indiano, lo sceriffo, il bandito buono o il cane da caccia esistono.
Gli animali non giocavano. Sentivano il pericolo avvicinarsi e fuggivano. Conoscevano il bosco molto meglio di Giacomo.

Verso sera, quando sua madre lo chiamava urlando il suo nome al cielo, Giacomo nascondeva l’arco e le frecce sotto un cespuglio e correva a casa, con la bisaccia, che nemmeno aveva, ma immaginava di avere, desolatamente vuota. Tutti i giorni d’estate la caccia si riapriva al mattino, verso le dieci, dopo aver fatto colazione, era interrotta da un pranzo frettoloso, riprendeva intorno alle due del pomeriggio e terminava, verso sera, con il suo nome gridato al vento da sua madre.

Tutti i giorni gli animali del bosco beffavano Giacomo non facendosi nemmeno vedere.
Non quel tardo pomeriggio. Quel pomeriggio era speciale. Giacomo stava tornando verso casa lentamente, si riavvicinava sempre nel tardo pomeriggio, per trovarsi a portata di voce e poter comparire sul prato, davanti a sua madre, il più presto possibile. Era importante far credere ai suoi che non si allontanava troppo.

Stava percorrendo il solito sentiero, quello sconnesso, quando, una ventina di metri più in basso, giusto al limite del bosco, dove si allargava uno spiazzo sterrato prossimo a delle baracche, una lepre ebbe l’ardire di farsi trovare allo scoperto. Si muoveva furtiva, a piccoli balzi, brevi, come se stesse cercando qualcosa o volesse, ispezionando per bene il terreno, ritrovare ciò che, magari, aveva smarrito.

A Giacomo non parve vero. L’emozione lo tradì facendogli scappare un gridolino di soddisfazione e piacere che poteva far fuggire la lepre all’istante e invece… quella si immobilizzò, si accucciò sulle zampe posteriori, pronta a scattare, e restò immobile.

Forse terrorizzata dal grido, forse solo confusa dagli echi prodotti dalle baracche lì vicino, che non le facevano capire da che direzione era arrivato il grido e, dunque, non riusciva a scegliere la direzione nella quale fuggire.

Giacomo, con movimenti lentissimi, trattenendo il fiato, incoccò la freccia migliore, quella più dritta, con la punta ben fatta. Tese l’arco al massimo e mirò. Mirò per bene, con calma. Mirò appena sotto la spalla della lepre, sperando di colpire il cuore; l’aveva letto da qualche parte che si doveva colpire al cuore, con precisione, senza pietà, per rispetto, persino, della vita che stava prendendosi.

L’animale non doveva soffrire. Doveva morire senza accorgersi di morire. Forse aveva imparato queste cose leggendo “Orzowei”, un romanzo per ragazzi e non solo, che gli era stato regalato per il suo compleanno. Sì, Sentiva il saggio Pao accanto a lui che sussurrava: “Mira con calma, calcola il vento, la distanza.

Mira appena più in alto, la freccia, man mano che volerà, perderà forza e tenderà a cadere. Mira con calma”.

La freccia volò oscillando nell’aria, graffiando il silenzio con sibilo appena udibile.
Solo una ventina di metri separavano Giacomo dalla lepre, solo un volo di freccia di due o tre secondi, al massimo. Interminabile distanza e tempo che parevano sospesi.

Giacomo non respirava, la lepre non si muoveva, l’aria sembrava densa e il solo rumore presente era quello del cuore di Giacomo; un tamburo impazzito.

Poi quel suono. Secco, unico e duro. Il suono dell’errore.
La freccia era passata fra la peluria del collo della lepre conficcandosi nel terreno appena dietro.

L’animale, che non aveva visto arrivare la freccia, sentito il rumore, spaventatosi, si era girato a guardare la freccia conficcata in terra e, d’istinto, era fuggito dalla parte opposta, verso Giacomo, per un po’, e poi, cambiando direzione improvvisamente, era sparito dietro alla prima baracca.

Giacomo era ancora fermo, il braccio teso, immemore del respiro. Il saggio Pao non c’era più. Giacomo era solo, con la sua sconfitta e la vittoria della lepre. Aveva fatto del suo meglio, lo sapeva, aveva mirato bene, con calma, ma non aveva colpito la lepre. Se l’avesse solo ferita sarebbe stato grave.

La lepre sarebbe fuggita con la freccia in corpo che, sbatacchiando qua e là, avrebbe lacerato ancor più la ferita. Giacomo non ci aveva mai pensato a questa cosa della freccia che lacera la carne.

Riprese a respirare e a pensare: cosa gli avrebbe detto sua madre se avesse scoperto che aveva ucciso una lepre? E suo padre, poi? Un senso di colpa si faceva strada dentro di lui, ma non era la paura di una punizione esemplare che lo atterriva, non solo.

Sentiva che l’errore non era l’aver mancato il bersaglio, ma aver voluto non mancarlo. Aveva rischiato di uccidere una bestiola per niente, per gioco.

Il suo nome riempì l’aria. Sua madre lo chiamava e Giacomo aprì entrambe le mani portandole dietro la schiena, come a nascondere le responsabili del suo atto criminoso. L’arco e le frecce rimaste caddero in terra e lì rimasero.

Un attimo dopo Giacomo era sul prato, davanti a sua madre, la testa china del colpevole.
“ Su, dai, vai a lavarti le mani che è pronto. Coniglio questa sera, con le patate. Ti piace il coniglio, no?”
Giacomo mangiò tutte le patate e tutto il pane che poté, aveva fame, come sempre, ma non toccò il coniglio.

fonte www.raccontioltre.it

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