pane azzimo

Tempo di lettura: 4 minuti

Quando lo sposo sarà loro tolto, allora digiuneranno.

Dal Vangelo secondo Matteo
Mt 9,14-15

In quel tempo, si avvicinarono a Gesù i discepoli di Giovanni e gli dissero: «Perché noi e i farisei digiuniamo molte volte, mentre i tuoi discepoli non digiunano?».
E Gesù disse loro: «Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro? Ma verranno giorni quando lo sposo sarà loro tolto, e allora digiuneranno».

Parola del Signore.

Perché digiunare?

Roberto Pasolini

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Oggi noi discepoli di Cristo prendiamo sul serio l’invito della Quaresima al digiuno, sottraendo un po’ di cibo dalle nostre mense e donandolo al silenzio della preghiera. Accogliamo questo invito non per perfezionare la nostra forza di volontà, ma per favorire la conversione del nostro cuore al cuore stesso di Dio. Mettiamo mano al nostro rapporto con il cibo per scoprire e disseppellire la presenza in noi di una fame più vera e profonda rispetto a quella che ci muove ordinariamente: la sete di giustizia e il desiderio di compiere il bene. 
Eppure, ancora prima di cimentarci in questa antica e sapiente pratica ascetica, veniamo ammoniti dalla voce profetica di Isaia:

«Non digiunate più come fate oggi, così da fare udire in alto il vostro chiasso. È forse come questo il digiuno che bramo, il giorno in cui l’uomo si mortifica?» (Is 58,4-5).

La parola sferzante del profeta di Dio sembra quasi muoverci un rimprovero prima che i nostri sforzi ascetici abbiano avuto modo di esprimersi e di rivelare l’effettiva disponibilità a cambiare i nostri passi e a crescere nella carità. Dobbiamo riconoscere, in effetti, che molte delle cose che facciamo — non solo i gesti di mortificazione — spesso si configurano, già nelle primissime intenzioni, come un inutile, anzi sconveniente sacrificio. Non tanto perché il nostro impegno sia del tutto privo di una certa dose di generosità, ma perché esso non è originato da una pienezza di vita — almeno desiderata — ma da un vuoto e dalla tristezza che lo divora. 
Diventano allora importanti, anzi fondamentali e luminose, le parole che il Signore Gesù pronuncia nel vangelo di oggi:

«Possono forse gli invitati a nozze essere in lutto finché lo sposo è con loro?» (Mt 9,15).

In Quaresima siamo tutti invitati a verificare con sincerità — e una buona dose di coraggio — se e quanto stiamo imparando a vivere dell’amore di Dio oppure, al contrario, quello che stiamo facendo è ancora espressione di un’inutile intenzione di meritarci il riconoscimento e la dignità che solo gratuitamente possono essere offerti e ricevuti. Per compiere questa verifica è sufficiente osservare la nostra capacità di accogliere il reale con la mitezza dell’amore: osservare quanta attenzione e premura ci capita di avere nei confronti degli altri, misurare l’effettiva disponibilità a metterci da parte per perdonare e andare oltre nei momenti dolorosi, valutare il grado di agilità nell’adattarci agli imprevisti della vita, che sempre modificano e plasmano il nostro anelito di felicità. Proprio in questi ordinari e silenziosi spazi quotidiani possiamo imparare a nutrirci della volontà di Dio, anziché sederci alla mensa della nostra volontà, per riscoprire nella logica della croce il sigillo di verità della nostra umanità:

«Non è piuttosto questo il digiuno che voglio: sciogliere le catene inique, togliere i legami del giogo, rimandare liberi gli oppressi e spezzare ogni giogo?» (Is 58,6).

L’astinenza dal cibo a cui la Quaresima ci richiama — soprattutto nei giorni di venerdì in cui la memoria della Passione del Signore è più viva — è una pratica antica e seria, da non barattare troppo velocemente con altre forme di privazione (dalla televisione e dai pettegolezzi, dallo smartphone e da Internet) che, seppure necessarie oggi, non arrivano mai a toccare l’equilibrio della nostra vita come può fare invece il rapporto con il cibo. Semmai, la mortificazione degli appetiti deve diventare il segno di quella più importante sottrazione di pesi e ingiustizie dalle spalle dei nostri fratelli, che ci incarichiamo di compiere attraverso una maggior cura nei loro confronti. La parola del profeta ci assicura che esiste una «ferita» aperta, che sanguina nel nostro cuore, che però «si rimarginerà presto» (58,8), se assecondiamo il desiderio di amare, donare e servire. Desiderio scolpito e nascosto in noi come fame profonda e insopprimibile.

fonte © nellaparola.it

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Eugenio

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