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Il pubblicano tornò a casa sua giustificato, a differenza del fariseo.

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 18,9-14
 
In quel tempo, Gesù disse ancora questa parabola per alcuni che avevano l’intima presunzione di essere giusti e disprezzavano gli altri:
«Due uomini salirono al tempio a pregare: uno era fariseo e l’altro pubblicano.
Il fariseo, stando in piedi, pregava così tra sé: “O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago le decime di tutto quello che possiedo”.
Il pubblicano invece, fermatosi a distanza, non osava nemmeno alzare gli occhi al cielo, ma si batteva il petto dicendo: “O Dio, abbi pietà di me peccatore”.
Io vi dico: questi, a differenza dell’altro, tornò a casa sua giustificato, perché chiunque si esalta sarà umiliato, chi invece si umilia sarà esaltato».

Parola del Signore.

Come l’aurora

Roberto Pasolini

Nel linguaggio profetico di Osea, la rugiada non è solo metafora della delicata e penetrante presenza di Dio nelle pieghe della nostra umanità, ma diventa anche un’immagine eloquente della nostra incostante capacità di corrispondere alla fedeltà del suo amore. Questo singolare fenomeno di condensa notturna, nella prima lettura di oggi, viene usato dal profeta per rappresentare quella radicale debolezza che il nostro cuore sperimenta e patisce nei confronti di Dio:

«Che dovrò fare per te, Èfraim, che dovrò fare per te, Giuda? Il vostro amore è come una nube del mattino, come la rugiada che all’alba svanisce» (Os 6,4).

Quando è riferita alla volontà del Signore per noi, la rugiada è immagine di un felice presagio, la silenziosa anticipazione di un torrente di benevolenza che vuole fecondare tutta l’arsura della nostra terra. Riferita a noi, invece, diventa simbolo di quella infedeltà che ci impedisce di percorrere fino in fondo il cammino della fede, accettando tutte le conseguenze che la legge delle Beatitudini imprime nella nostra umanità. Come la rugiada all’alba tende a dissolversi, quando finalmente il sole penetra gli strati più bassi dell’atmosfera, così noi, dopo i primi facili momenti, scopriamo di non essere capaci di rimanere fedeli alla rivelazione di Dio, non appena ci è chiesto di mettere da parte ogni aspettativa e di essere disposti a morire a noi stessi per poter rimanere discepoli in cammino. 
In questi momenti, quando la fiducia e la speranza iniziali hanno bisogno di declinarsi in una disponibilità a conoscere l’amore più grande, ci rifugiamo nel più odioso e velenoso meccanismo di difesa: il giudizio verso i fratelli. La breve parabola dei due uomini che salgono «al tempio a pregare» (Lc 18,10) ci punge nel profondo, ogni volta che cadiamo nell’«intima presunzione di essere giusti» e ci prendiamo la licenza di poter disprezzare «gli altri» (18,9). La preghiera del fariseo, pur iniziando con una lodevole parola di gratitudine, è tutta costruita attorno al confronto con chi, a prima vista, appare meno meritevole di essere ascoltato ed esaudito:

«O Dio, ti ringrazio perché non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri, e neppure come questo pubblicano. Digiuno due volte alla settimana e pago la decima di tutto quello che possiedo» (Lc 18,11).

Tutto diverso è l’atteggiamento del pubblicano, che si pone davanti all’Altissimo senza cercare né un confronto con gli altri, né uno sconto sul proprio mistero di fragilità. Anzi, proprio il suo sentirsi e riconoscersi peccatore diventa un modo di pregare capace di intercettare perfettamente il cuore del Padre e la bellezza del suo volto misericordioso e paziente:

«O Dio, abbi pietà di me peccatore» (Lc 18,13).

Giunti quasi a metà della Quaresima, conviene chiederci con onestà con quali sentimenti stiamo provando nel rivolgerci a Dio con maggiore e speciale intensità. Stiamo sentendo una partecipazione più profonda alla vita e alla povertà di chi ci sta accanto, oppure stiamo scivolando in quella presunzione che ci fa sentire un po’ più buoni, giusti e diversi dagli altri? Ciò che sempre deve animare e sostenere i nostri passi non è la fiducia in quello che riusciamo a fare, ma in quello che riusciamo a sperare:

«Venite, ritorniamo al Signore: egli ci ha straziato ed egli ci guarirà. Egli ci ha percosso ed egli ci fascerà. Dopo due giorni ci ridarà la vita e il terzo ci farà rialzare, e noi vivremo alla sua presenza» (Os 6,1-2).

Se anche dovessimo scoprire di essere evanescenti come la rugiada, può consolarci nel profondo la gioia di sapere che la venuta del Signore potrà infonderci quello che ancora non siamo e non abbiamo:

«Affrettiamoci a conoscere il Signore, la sua venuta è sicura come l’aurora. Verrà a noi come la pioggia d’autunno, come la pioggia di primavera che feconda la terra» (Os 6,3).

fonte © nellaparola.it


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Eugenio

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