Commento al Vangelo del 21 dicembre 2024

A cosa devo che la madre del mio Signore venga a me?

Dal Vangelo secondo Luca
Lc 1,39-45

In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda.
Entrata nella casa di Zaccarìa, salutò Elisabetta. Appena Elisabetta ebbe udito il saluto di Maria, il bambino sussultò nel suo grembo.
Elisabetta fu colmata di Spirito Santo ed esclamò a gran voce: «Benedetta tu fra le donne e benedetto il frutto del tuo grembo! A che cosa devo che la madre del mio Signore venga da me? Ecco, appena il tuo saluto è giunto ai miei orecchi, il bambino ha sussultato di gioia nel mio grembo. E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto».

Parola del Signore.

Il viso e la voce

Roberto Pasolini

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Le parole del Cantico riescono a esprimere, attraverso la ricchezza del linguaggio poetico, il mistero di emozione e di consapevolezza che l’annuncio dell’Incarnazione del Verbo deve aver acceso nel cuore della Vergine:

«Una voce! L’amato mio! Eccolo, viene saltando per i monti, balzando per le colline» (Ct 2,8).

Gli elementi più drammatici e complessi dell’Annunciazione si dissolvono nella dolce melodia del Cantico, per lasciare lo spazio ai colori e ai sapori di quella gioia che Dio si è preparato lungo i secoli, scegliendo di diventare – per sempre e per tutti – il Dio-con-noi: «Eccolo, egli sta dietro il nostro muro; guarda dalla finestra, spia dalle inferriate» (2,9).
Nel mistero di una parola «impossibile» da credere eppure desiderabile da accogliere, Maria ha saputo riconoscere il movimento discreto di un Dio incapace di rimanere presso di sé, perché colmo del desiderio di condividere quanto ha di più prezioso con le sue creature. Per questo, dopo aver pronunciato il suo «eccomi!» alla parola dell’angelo, la Vergine (ormai) Madre

«si alzò e andò in fretta verso la regione montuosa, in una città di Giuda» (Lc 1,39).

L’urgenza con cui Maria si precipita a «visitare» la cugina «Elisabetta» scaturisce senza dubbio da una gioia profonda, quella che solo Dio è in grado di generare dentro la storia con la ricchezza e la fedeltà dei suoi doni. Ma, al contempo, può essere compresa anche come la rivelazione di un amore grande da cui Maria si è sentita raggiunta dentro le viscere più intime e profonde della sua esistenza umana. Sono ancora le parole del Cantico a indicarci con quale intensità Dio è stato capace di visitare l’umiltà della sua serva, per poterla innalzare al grande onore di diventare il luogo e il paradigma stesso della sua volontà di incarnazione:

«Àlzati, amica mia, mia bella, e vieni, presto! […] O mia colomba, che stai nelle fenditure della roccia, nei nascondigli dei dirupi, mostrami il tuo viso, fammi sentire la tua voce, perché la tua voce è soave, il tuo viso è incantevole» (Ct 2,10.14).

Le parole infuocate del Cantico sono per noi l’occasione di contemplare l’anima profonda di quel mistero di amorosa presenza che è la venuta del Signore nella tenda della storia umana. Mentre siamo soliti fermare la nostra attenzione sulla grandezza della chiamata di Dio o, viceversa, sulla prontezza di risposta da parte di Maria, il dialogo tra l’amato e l’amata, presente nelle Scritture poetiche di Israele, ci aiuta a comprendere quale sia la ragione profonda per cui non solo il Verbo si è fatto, ma soprattutto ha voluto farsi carne. Quando la Vergine ha concesso pieno ascolto e disponibilità alla voce di Dio, il suo cuore ha saputo riconoscere – prima e a nome di tutti noi – che a Dio non è sufficiente avvicinarsi a noi. Egli vuole addirittura avere bisogno del nostro «viso» e della nostra «voce» per poter consumare il grande desiderio di abitare la nostra terra. I tratti più rappresentativi e simbolici del nostro corpo spirituale – il volto e la voce – sono cercati da Dio come l’indispensabile grembo per poter essere finalmente con noi e come noi. Così viene il Signore: quando cominciamo a credere che senza il nostro viso e senza la nostra voce non potrà giungere la primavera, con i suoi inconfondibili profumi e i suoi vivaci colori. Senza la libertà del nostro desiderio di lasciarci sorprendere e incontrare, il mistero del Natale non può essere celebrato nella verità. Proprio per noi — incantevoli e soavi ai suoi occhi — Dio si è fatto uomo:

«Perché, ecco, l’inverno è passato, è cessata la pioggia, se n’è andata; i fiori sono apparsi nei campi, il tempo del canto è tornato e la voce della tortora ancora si fa sentire nella nostra campagna» (Ct 2,11-12).

L’elogio con cui Elisabetta si rivolge a Maria è una parola «colmata di Spirito Santo» (Lc 1,41) perché svela il segreto di quell’accoglienza che, in realtà, ciascuno di noi è capace di offrire al Dio che – sempre – ci parla:

«E beata colei che ha creduto nell’adempimento di ciò che il Signore le ha detto» (Lc 1,45).

Credere che non resterà priva di una sicura realizzazione la promessa che Dio, anche a noi, rivolge è la più bella delle beatitudini riservate alla nostra esperienza in questo mondo. Perché ci «costringe» a credere non solo in Dio, ma anche in noi stessi: nel nostro volto, nella nostra voce.

fonte © nellaparola.it

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Eugenio Ruberto
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