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Mentre Gesù pregava, il suo volto cambiò d’aspetto.
Dal Vangelo secondo Luca
Lc 9,28b-36
In quel tempo, Gesù prese con sé Pietro, Giovanni e Giacomo e salì sul monte a pregare.
Mentre pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elìa, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme.
Pietro e i suoi compagni erano oppressi dal sonno; ma, quando si svegliarono, videro la sua gloria e i due uomini che stavano con lui.
Mentre questi si separavano da lui, Pietro disse a Gesù: «Maestro, è bello per noi essere qui. Facciamo tre capanne, una per te, una per Mosè e una per Elìa». Egli non sapeva quello che diceva.
Mentre parlava così, venne una nube e li coprì con la sua ombra. All’entrare nella nube, ebbero paura. E dalla nube uscì una voce, che diceva: «Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo!».
Appena la voce cessò, restò Gesù solo. Essi tacquero e in quei giorni non riferirono a nessuno ciò che avevano visto.
Parola del Signore.
Dopo il tramonto
Roberto Pasolini

Dopo i primi dieci giorni nel cammino quaresimale, la liturgia ci aiuta subito a mettere a fuoco il motivo per rimanere coraggiosamente nel deserto della vita, dove si può affrontare il buon combattimento della fede per rimanere «saldi nel Signore» (Fil 4,1). Il vangelo lo rivela ricordandoci quando il Signore Gesù decide di salire su un «monte» (Lc 9,28), per dedicarsi a una preghiera più raccolta e intensa. Prende con sé solo alcuni dei discepoli, «Pietro, Giovanni e Giacomo» (9,28). In questo spostamento geografico, possiamo cogliere già un richiamo indispensabile per portare avanti la nostra conversione. La preghiera ha bisogno — almeno di tanto in tanto — di compiersi non ovunque, ma nel silenzio e in un luogo appartato.
Restare in solitudine non è tuttavia esperienza facile. La nostra società, che pone tutto sulla bilancia dell’efficacia e del tornaconto, certo non offre molti aiuti a coltivare spazi di silenzio e di riflessione. Eppure, il vangelo racconta che, solo nella solitudine della preghiera, si può manifestare qualcosa di veramente unico e speciale. Mentre il Signore Gesù
«pregava, il suo volto cambiò d’aspetto e la sua veste divenne candida e sfolgorante. Ed ecco, due uomini conversavano con lui: erano Mosè ed Elia, apparsi nella gloria, e parlavano del suo esodo, che stava per compiersi a Gerusalemme» (Lc 9,29-31).
Era notte e i discepoli, seppur «oppressi dal sonno», si svegliano e vedono «la sua gloria» (9,32), al punto da non potere che esclamare, per bocca di Pietro: «Maestro, è bello per noi essere qui» (9,33).
La «gloria», nel linguaggio biblico, è il peso specifico di una certa realtà, la sua effettiva rilevanza, il suo spessore di verità. Noi tutti, a causa del «peccato», siamo «privi della gloria di Dio», afferma san Paolo (Rm 3,23). Ci manca, cioè, la percezione della rilevanza di Dio, l’intuizione della sua verità e della sua bellezza. I discepoli, sul monte, si trovano proprio di fronte alla manifestazione improvvisa di questa gloria, che cambia il volto di Gesù e fa diventare i suoi abiti come un sole che brilla. Se la Quaresima non può cominciare senza la nostra disponibilità a metterci un po’ in discussione, è altrettanto vero che non può nemmeno continuare senza l’intuizione di quanto la bellezza di Dio sia tutto ciò che il nostro cuore assetato sta disperatamente cercando:
«Questi è il Figlio mio, l’eletto; ascoltatelo» (Lc 9,35).
Il cammino attraverso cui Abram giunge a credere alla bellezza delle promesse di Dio ci ricorda, però, come l’accesso all’intimità di cuore con Dio non possa che avvenire quando è calato — definitivamente — il sole sulle nostre aspettative umane, con cui siamo soliti misurare e gustare la realtà. Dopo aver annunciato al suo servo una discendenza numerosa come le stelle del cielo, il Signore Dio sembra quasi mettere alla prova la fiducia di Abram, sfidandolo sul bisogno di dominare l’orizzonte del futuro:
«Io sono il Signore, che ti ho fatto uscire da Ur dei Caldei per darti in possesso questa terra» (Gen 15,7).
Il santo patriarca, intercettato nel bisogno di sentire o toccare un pegno della promessa di Dio, non esita a domandare: «Signore Dio, come potrò sapere che ne avrò il possesso?» (15,8). Il racconto biblico si diffonde sul rituale di offerta di animali divisi e collocati a terra, che restano cadaveri esposti allo sciacallaggio fino al tramonto del sole:
«Quando, tramontato il sole, si era fatto buio fitto, ecco un braciere fumante e una fiaccola ardente passare in mezzo agli animali divisi» (Gen 15,17).
Per incontrare la bellezza — ardente e fiammante — dell’amore di Dio, anche noi dobbiamo lasciare che la nostra offerta rimanga sdraiata a terra fino al completo tramonto del sole. Solo così possiamo abituarci a credere che dentro quello che sembra ormai votato alla morte, in realtà, si nasconda il germe di una possibile risurrezione, nel cuore delle tenebre l’amore di Dio per tutte le sue creature:
«La nostra cittadinanza infatti è nei cieli e di là aspettiamo come salvatore il Signore Gesù Cristo, il quale trasfigurerà il nostro misero corpo per conformarlo al suo corpo glorioso» (Fil 3,20).
fonte © nellaparola.it
Leggiamo ed ascoltiamo il commento di Padre Gaetano Piccolo SJ
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