Leggi e ascolta “ascensore per le stelle”
Giovanni Francesco Rodari, detto Gianni[1] (pronuncia Rodàri, /roˈdari/; Omegna, 23 ottobre 1920 – Roma, 14 aprile 1980), è stato uno scrittore, pedagogista, giornalista e poeta italiano. È l’unico scrittore italiano ad aver vinto il Premio Hans Christian Andersen (1970). (leggi ancora)
A tredici anni Romoletto venne assunto come aiuto garzone al bar Italia. Gli affidarono i servizi a domicilio, e tutto il giorno egli correva su e giù per strade e per scale, reggendo in equilibrio vassoi pericolosamente carichi di chicchere, tazze e bicchieri.
Più che altro gli davano fastidio le scale: a Roma, come del resto in altri posti del mondo, le portinaie sono gelose dei loro ascensori e ne vietano l’accesso, di persona o con cartelli, a baristi, lattai, fruttaroli e simili.
Una mattina telefonò al bar l’interno quattordici del numero centotre, voleva quattro birre e un tè ghiacciato, «ma subito, o li butto dalla finestra», aggiunse una voce burbera, ed era quella del vecchio marchese Venanzio, terrore dei fornitori.
L’ascensore del numero centotre era di quelli proibitissimi, ma Romoletto sapeva come ingannare la sorveglianza della portinaia, che sonnecchiava nella guardiola: sgattaiolò non visto nella cabina, infilò le cinque lire nell’apparecchio a scatto, schiacciò il bottone del quinto piano e l’ascensore partì cigolando. Ecco il primo piano, il secondo, il terzo.
Dopo il quarto piano, invece di rallentare, l’ascensore accelerò la corsa, schizzò davanti al pianerottolo del marchese Venanzio senza fermarsi, e prima che Romoletto avesse il tempo di meravigliarsi tutta Roma giaceva ai suoi piedi e l’ascensore saliva alla velocità di un razzo verso un cielo tanto azzurro da sembrar nero.
Ti saluto, marchese Venanzio, – mormorò Romoletto con un brivido. Con la mano sinistra egli reggeva sempre in equilibrio il vassoio con le consumazioni, e la cosa era piuttosto da ridere, considerando che intorno all’ascensore si allargava ormai ai quattro venti lo spazio interplanetario, e la terra, laggiù laggiù, in fondo all’abisso celeste, ruotava su se stessa trascinando nella sua corsa il marchese Venanzio che aspettava le quattro birre e il tè ghiacciato.
«Almeno non arriverò tra i marziani a mani vuote», pensò Romoletto, chiudendo gli occhi. Quando li riaperse, l’ascensore aveva ricominciato a scendere, e Romoletto tirò un respiro di sollievo.
Dopo tutto, il tè arriverà ghiacciato ugualmente. Purtroppo l’ascensore toccò terra nel cuore di una selvaggia foresta tropicale e Romoletto, guardando attraverso i vetri, si vide circondato da strane scimmie barbute che se lo indicavano eccitate, chiacchierando con straordinaria rapidità in una lingua incomprensibile. «Forse siamo cascati in Africa», rifletté Romoletto.
Ma ecco che il cerchio delle scimmie si apriva per lasciar passare un personaggio inatteso: uno scimmione in divisa blu, montato su un enorme triciclo.
Una guardia! Forza, Romoletto! E senza contare né uno né due il giovane aiuto garzone del bar Italia schiacciò un bottone dell’ascensore, il primo che gli capitò sotto le dita.
L’ascensore ripartì a velocità supersonica, e solo quando fu a una certa distanza Romoletto, guardando in basso, si rese conto che il pianeta dal quale stava fuggendo non poteva essere la Terra: i suoi continenti e i suoi mari avevano un disegno del tutto diverso, e mentre dallo spazio la Terra gli era apparsa di un bell’azzurro tenero, i colori di questo globo variavano dal verde al viola.
Sarà stato Venere, – decise Romoletto, – ma al marchese Venanzio cosa dirò? Toccò con le nocche delle dita i bicchieri sul vassoio: erano gelati come quando era uscito dal bar. Tutto sommato, non dovevano essere trascorsi che pochi minuti.
L’ascensore, dopo aver attraversato a velocità incredibile un enorme spazio deserto, riprese a scendere.
Romoletto, stavolta, non poteva aver dubbi: Accipicchia! – esclamò, – stiamo atterrando sulla Luna. Che ci faccio io qui?
I famosi crateri lunari si avvicinavano rapidamente. Romoletto corse con le dita della mano libera dal vassoio alla bottoniera dell’ascensore, ma: Alt! – si ordinò, prima di schiacciare un bottone qualsiasi, -riflettiamo un momentino.
Esaminò la fila dei bottoni. L’ultimo in basso recava in rosso la lettera «T», che vuol dire terra.
Proviamo! – sospirò Romoletto. Schiacciò il bottone del pianterreno e l’ascensore invertì immediatamente la rotta.
Pochi minuti dopo riattraversava il cielo di Roma, il tetto del numero centotre, la tromba delle scale, e atterrava accanto alla nota portineria, dove la portinaia, ignara di quel dramma interplanetario, continuava a sonnecchiare.
Romoletto si precipitò fuori, senza nemmeno voltarsi a richiudere la porta. Stavolta le scale le fece a piedi. Bussò all’interno quattordici e ascoltò a testa bassa, senza fiatare, le proteste del marchese Venanzio:
Be’, ma dove sei stato tutto questo tempo? Ma ce lo sai che da quando vi ho ordinato queste maledette birre e questo stramaledetto tè ghiacciato sono passati ben quattordici minuti? Al posto tuo Gagarin sarebbe già arrivato sulla Luna.
«Anche più in là», pensò Romoletto, ma non aprì bocca. E per fortuna le bevande erano ancora ghiacciate a puntino.
Eh, ne deve fare di corse, in un giorno, l’aiuto garzone del bar Italia addetto ai servizi a domicilio…
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